domenica 21 febbraio 2010

PIOGGIA SULLA CITTA' - MICHELE VACCARO (46)

La pioggia incessante spazzava i marciapiedi creando un pavimento riflettente dentro cui il commissario Giuseppe Vicedomini, Peppino per gli amici, tornando a casa, specchiava il viso stanco e tirato dalla lunga giornata di lavoro alle prese con l’umanità più varia: papponi che menavano le mignotte per scarso rendimento, scippatori che imperversavano per le strade alla ricerca della stabilità economica, topi d’appartamento sempre meno notturni e mariuoli di ogni risma che rendevano la città una delle più vituperate della nazione.
Il tutto condito da cumuli di immondizia depositati in ogni dove e puntualmente dati alle fiamme dai soliti ignoti incuranti del fatto che la combustione di questi altra utilità non arrecasse che quella di produrre diossina letale per la salute propria nonchè degli sventurati residenti in loco.
L’intera l’area urbana si era trasformata in un immenso rogo sfavillante di munnezza che solo il temporale abbondantemente annunciato dai soloni delle previsioni metereologiche stava provvedendo a contrastare, considerata l’ormai dichiarata resa dei Vigili del Fuoco, che per un focolare spento altri tre sfuggiti al controllo ne dovevano subire quale smacco all’onorata carriera.
Riparato alla bell’e meglio dai balconi disseminati lungo il percorso che dalla Questura conduceva nel piccolo appartamento condominiale nel quale abitava, il commissario Giuseppe Vicedomini, 40 anni appena compiuti, single poco convinto, entrato in polizia qualche decennio prima poiché non sapeva bene cos’altro fare, rifletteva sul menù serale da inventarsi una volta guadagnato le confortevoli mura amiche che lo avrebbero riparato dalle brutture del mondo esterno, se non altro il tempo di ricaricare le pile durante il sonno, e quindi rituffarsi senza salvagente nell’oceano d’illegalità che gli si apriva ogni luce dell’alba davanti agli occhi.
Al solito optò per le virtù a buon mercato del forno a microonde, elettrodomestico amico dei soggetti non sposati, particolarmente pigri o carenti di tempo da dedicare all’arte culinaria.
Aprì il frigo e ne estrasse un cartone con mezza pizza alle acciughe avanzata dalla sera prima, ipotetico semicerchio commestibile che terminò nelle fauci del fornello complice.
Il commissario si sedette al tavolino della cucina e principiò a consumare con lentezza il frugale desco, innaffiandolo con dell’ottimo Greco Di Tufo D’Aione D.O.C. 2006, con uvaggio greco al 100%, gradazione alcolica del 13%, prodotto a Torrioni, abbuscatosi dal portiere del condominio, di origini avellinesi, in occasione delle trascorse festività natalizie.
Col televisore quattordici pollici Philips acquistato in leasing all’ipermercato sotto casa, adagiato sulla lavatrice Indesit con risciacquo continuo aggiudicatasi ad un’asta giudiziaria, desinava guardando scorrere, senza vederle veramente, le immagini del tg di prima serata.
Ogni tanto gli tornava in mente Caterina, la donna che l’aveva lasciato da qualche anno e che non era mai riuscito a dimenticare del tutto.
Si erano amati sinceramente, anche se lui, incapace di lasciarsi andare completamente alle emozioni, non era mai riuscito a dimostrarglielo in pieno.
Era sbirro anche in questo, dimostrava un velo di freddezza esteriore anche quando dentro insistevano fiamme avviluppanti.
Aveva puntato molto su quel rapporto, gettato pazientemente acqua sul fuoco di un tète a tète che stava pian piano diventando escandescente; pensava che per lui, non più in verdissima età, la storia con Caterina poteva costituire l’ultimo treno su cui salire per sposarsi e magari avere dei figli.
In altre parole tenuto botta fino ad esaurimento della pazienza, poi le contraddizioni insite nel menàge erano venute a galla in maniera inesorabile compromettendo sogni e progetti.
Quindi, la fine annunciata, con gli squilli di tromba di una telefonata terminata a male parole.
Certo, una parte della colpa era anche sua, si sbaglia in due, Vicedomini ne era consapevole, ma tant’è…la liaison era da ritenersi senz’altro conclusa, e le ceneri del rapporto durato quattro intensi anni lo avrebbero ammorbato per lungo tempo.
Terminata la seduta culinaria, il commissario adagiò la macchinetta espresso sul gas per prepararsi un caffè come diceva lui, alla napoletana, adottando un trucchetto insegnatogli da un collega; artifizio sconosciuto ai più che conferiva alla bevanda un’aroma particolare.
Il segreto per la preparazione del piccolo momento privato stava nel pressare forte il macinato, indi praticarvi alcuni forellini con uno stuzzicadenti o qualche altro oggetto simile, dandogli così modo di respirare durante la salita e regalare al risultato un sapore decisamente speciale.
Mentre la macchinetta sbuffava sul fuoco squillò il cellulare.
Vicedomini spense la fiamma, richiuse la bombola del gas e, bofonchiando qualche epiteto all’indirizzo del cacacazzi telefonico, schiacciò il tasto di ricezione del cellulare.
Era l’ispettore Giovanni Quagliarulo, di qualche anno più grande, coniugato con moglie querula, tre figli adolescenti, dispendiosamente trendy e suoceri nevrotici a carico che lo avvisava di precipitarsi in Questura poichè si era verificato un fatto di sangue in una località popolare della città bassa.
Giunto nel fatiscente palazzone di edilizia ’anni 40’ adibito a luogo di lavoro dei rappresentanti della legge il commissario Vicedomini fu prontamente ragguagliato in merito alla faccenda, quindi, immediatamente dopo, reclutati alcuni uomini e fatta giungere una volante ordinò di condurlo immantinente sul luogo del misfatto.
Arrivati sul posto notò subito la figura esanime di un uomo anziano disteso supino sul selciato accanto a quintali di spazzatura dall’altezza spropositata ancora ardenti.
Si contavano sull’addome di costui circa una decina di coltellate profonde, inferte sicuramente con rabbia, probabilmente a causa di un alterco successivamente degenerato con evidenti effetti devastanti.
Il sangue fuoriuscito dalle ferite, mescolato all’acqua piovana, formava un fiumiciattolo surreale nella serata ormai pacificata metereologicamente.
Per la prima volta nella vita ed in carriera Giuseppe Vicedomini certificò un evento che mai avrebbe immaginato: esistevano dei testimoni al litigio di Luigi Cannavacciuolo con l’assassino, il quale, dopo il folle gesto compiuto, si era dato alla fuga a piedi nel ventre della città, sperando di ottenere impunità.
C’erano dei testimoni non reticenti, roba da non credersi, continuava a ripetere a se stesso il commissario; condomini che alle prime urla scaturite dal litigio dabbasso si erano affacciati alle finestre assistendo atterriti al brutale episodio.
L’accoltellatore era un tale Umberto Scognamiglio, detto “bebè ‘o sfregiato”, per via di una cicatrice, certamente una coltellata inferta per sfregio lungo la fronte in senso orizzontale, un 32enne disoccupato dedito a furti d’appartamento e spaccio di eroina nel parco degradato del quartiere.
Il Cannavacciuolo e lo Scognamiglio, secondo le testimonianze, erano venuti alle mani dopo che l’anziano, pensionato delle Ferrovie dello Stato, vedovo e senza figli, avrebbe intimato al vicino di casa di non bruciare i rifiuti considerato il pericolo derivato dalle esalazioni tossiche che da essi sarebbero state prodotte.
Lo Scognamiglio avrebbe replicato, piccatissimo, di non nutrire intenzione alcuna di sopportare la puzza dell’immondizia proprio sotto casa sua, ubicata al pianterreno dello stabile.
Una parola via l’altra e i due sarebbero venuti alle mani.
Lo sfregiato, non soddisfatto di aver avuto la meglio nella scazzottata, aveva estratto un coltello a scatto, la cosiddetta molla, tipico strumento dei guappi del tempo che fu, infierendo sul povero anziano fino a lasciarlo agonizzante in un lago di sangue sul marciapiedi.
“Cose da pazzi, eh… Peppì…?”- disse l’ispettore, rivolto confidenzialmente al commissario.
“E’ questa città, Giuà… è la sua aria malefica che rende pazzi gli abitanti, e il fetore della munnezza c’entra poco”-, rispose il Vicedomini al suo sottoposto, nonché amico di tante battaglie vinte e perse nei meandri di quella metropoli tentacolare che somigliava più all’India che ad una città europea.
“Qui la pazzaria è lo sbocco naturale di una condotta di vita sempre sopra le righe in tutto…a ggente esce pazza tutte ‘e juorne, Giuà …e saje pecchè? Pecchè è figlia ‘e ’ na mamma pazza, e quanno a signora nun ce stà cchiù ca capa pure ‘e figlie primma o poi esceno pazze comma a essa.
E’ sempe stato accussì e sempe accussì sarrà, fino a quanno ‘sta femmena figlie nun ne farrà cchiù e se lascerà murì int’ò silenzio pe nun ffà cchiù rammaggie”.
“Però che tristezza, Peppì, non mi abituerò mai a queste dinamiche, nonostante le lordure ingoiate in tanti anni di servizio”.
“Non ci farai mai il callo perché sei un buon poliziotto oltre che un brav’uomo, Giovanni.
Chi si abitua alla merda lo diventa suo malgrado, e questo tipo di escremento è difficile che diventi cioccolata, amico mio”.
“Hai proprio ragione tu, Peppì, le cose stanno proprio così in questo posto maledetto e bellissimo, unico al mondo, frequentatissimo e disperatamente solo.
“Andiamo, va…Giuà…sta riprendendo a piovere, anche se temo non basteranno miliardi di litri di pioggia a lavare il sudiciume depositato dappertutto”.
Il commissario ed il suo vice risalirono in macchina e, una volta ritornati in Questura, provvidero ad emanare un comunicato, corredato da foto segnaletica, di Umberto Scognamiglio a tutte le volanti, affinché potessero acciuffare il reo nel minor tempo possibile, privandolo, cioè, della possibilità di riparare in luogo sicuro o addirittura di poter lasciare il paese.
Lo presero all’alba del giorno seguente, mentre si aggirava, logoro nelle vesti e lo sguardo allucinato, nei pressi della Stazione Centrale, alla ricerca disperata di un treno per sfuggire alle grinfie delle forze dell’ordine.
Non fece resistenza, fu ammanettato e portato in Centrale per la convalida del fermo e da lì spedito direttamente al carcere di Poggioreale in attesa del processo che certamente gli avrebbe riservato un’esemplare condanna.
Al termine di quell’altra dura giornata il Vicedomini tornava a casa al solito a piedi, abitudine maturata nel corso degli anni di servizio in quell’avamposto di frontiera e che gli restituiva una sensazione di piacevole rilassamento, come se si frapponesse un morbido cuscinetto protettivo, la debita distanza emotiva, fra il lavoro ed il confortevole rifugio della propria abitazione.
Pensava a Caterina, a come sarebbe potuto essere ed a come non era stato.
La pioggia veniva giù a secchiate.
Specchiando il viso nel riflesso dell’acqua sui marciapiedi il commissario rimuginava sul menù da assemblare per cena: magari avrebbe optato ancora per la solita pizza da infornare nel microonde ed il tg di prima serata quale unica compagnia prima di spegnere tutto e andare a dormire.

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