domenica 21 febbraio 2010

GOMMA PANE - MARCO DE MATTIA (46)

Nel paese tutte le cose interessanti si trovavano lungo Corso Vittorio Emanuele.
La scuola elementare delle suore, il negozio di mobili di mio padre, la vecchia Standa, la cartoleria, il giornalaio, il bar della signora Efina.
Da bambino il massimo impegno era costituito dal come passare indenne il pomeriggio. A volte cacciavo gli scorpioni nello sgabuzzino vicino alla caldaia, tra rimasugli di legni antiquati e cere da ritocco. Pazientemente costruivo le trappole. Un rischioso passatempo.
Grande guaio, quando mi trovò mia madre! Fui costretto alla doverosa pennichella in ufficio e obbligato con la forza a stare calmo. Rimasi così allibito di fronte alla sua paura di questi graziosi animaletti, che dovetti cambiare interessi, barcamenandomi tra i portici del centro, sfuggendo al categorico supplizio del riposino.
Meglio legato, un bambino, piuttosto che fermo cinque minuti continui.
Beato doposcuola: solo allora riuscivano a liberarsi di me.
Siccome non era sempre domenica, o non potevano mollarmi dai nonni, aspettavo l’apertura, verso le tre del pomeriggio, dei posti migliori.
Alle cinque mi aspettavano i compiti: nell’ufficio i miei genitori allestivano un banchetto, rigorosamente accanto al tavolo adibito ai conteggi economici dell’attività familiare, con la grande calcolatrice. Essendo mancino, la manovella della grande calcolatrice mi impediva di scrivere: si trovava giusto all’altezza del mio gomito. C’erano i rumori dei vari meccanismi in movimento della macchina, talmente elevati che venivo distolto dallo studio a ogni operazione di calcolo. Faceva tanto casino, quell’apparecchio elettrico, sembrava il motore di un aereo. Molto spesso, per scherzo, staccavo la spina dalla presa di corrente della grande calcolatrice. Tutti si arrabbiavano, specialmente i fornitori, che aspettavano la compilazione delle tratte. Rimanevano allibiti per ore, cercando di capire cosa non funzionava: giusto il tempo utile per farmi sgattaiolare via.
Verso sera tornavo e rimettevo le cose a posto, se ancora non se ne erano accorti, della manomissione. Con l’arrivo del tecnico, un giorno, mi colsero con le mani nel sacco, e furono scapaccioni… Ma il tempo dovevo impiegarlo meglio.
La notizia buona arrivò, d’improvviso, una mattina. A scuola un compagno aveva con sé, dentro all’astuccio, ben nascosta per non farla vedere dalla maestra, una gomma sensazionale. L’insegnante, una suora piccola di statura, simpatica ma ligia al dovere, non permetteva l’uso di cianfrusaglie durante le ore di lezione o mentre un alunno era alla lavagna. Quella gomma aveva dimensioni rettangolari, circa tre centimetri per quattro, e uno spessore di mezzo centimetro. Sotto manipolazione diventava una palla, oppure tante piccole gomme, se divisa. Cancellava; la spartivi tra i tuoi amici; quando anneriva, impastandola con altro materiale “fresco”, riviveva antichi splendori. Da usata e consumata non buttavi via niente, al massimo la regalavi, oppure costruivi palline da impiegare come proiettili per le cerbottane, create con gli involucri di plastica delle penne biro. Saccheggiavo le scorte di gomma pane dei miei compagni di classe, altrimenti barattavo i rimasugli dando in cambio fogli di carta assorbente rubata dall’ufficio di mio padre. Quella carta era molto richiesta. Potevo approfittare della fiducia e della pazienza dei miei genitori. Essendo mancino mi venivano concesse risme intere di carta, pur di non intingere l’avambraccio, quando scrivevo, sulla pagina precedente ancora fresca d’inchiostro. Secondo l’economia domestica dell’epoca, la carta assorbente costava molto meno rispetto ai cicli delle prime lavatrici o alla tariffa di un buon lavasecco. In ogni caso ero sempre sporco e un grande furbo.
“Sai mamma, la maestra vuole che impari a scrivere con inchiostro, pennino e calamaio…”
Bugia? Ebbene sì, ci voleva una buona scusa per non usare le biro!
Andai avanti così per un pezzo, finché non comparvero alla mia vista le penne stilografiche. Allora cambiai interessi, ero diventato grande… ma questa è un’altra storia.
In questo modo scoprii l’enorme potere della gomma pane.
Il rifornimento più vicino risiedeva a circa cento metri di distanza dalla scuola.
In quel punto la strada fatta col porfido si avvallava, per poi continuare e concludersi in piazzetta Cavour. L’enorme, così mi sembrava all’epoca, magazzino di due piani, aveva, udite, udite, la scala mobile. Parecchi bambini si divertivano passando pomeriggi interi nel continuo saliscendi. Alcuni fantasticavano su quello che sarebbe successo se un oggetto, o il piede di qualche persona, si fosse incastrato tra lo scivolo di uscita e i gradini, o tra i gradini e le sponde. In molti appoggiavano le mani sul nastro corrimano cercando qualche fessura, un possibile pertugio. Per farsi male bisognava rischiare, il pericolo era la nostra missione, l’incidente il nostro premio. Al piano terra c’erano tutti oggetti per le persone adulte.
Quindi, abbandonata la commessa infuriata, che spegneva per l’ennesima volta la scala mobile, camminavo fino in fondo alla sala, dove vendevano i dischi. Guardavo per bene i quarantacinque e i trentatrè giri in offerta speciale. Per un acquisto del genere vinile avrei dovuto aiutare mio padre nel trasporto dei cassetti di comodini, in qualche trasloco; sarei stato obbligato a contrattare un bel po’ di giornalini facenti parte della mia ampia raccolta. Vicino al cinema Verdi un ambulante ritirava libri, fumetti, riproponendoli come roba usata in bancarella. Io ero tra i suoi fornitori. Non avevo la paghetta. Con i miei traffici me la passavo abbastanza bene. Riuscivo a imbonire i nonni materni industriandomi con qualche piccolo lavoretto nell’orto, durante il fine settimana; c’era poi il periodo fruttuoso della vendemmia… Accumulavo nel salvadanaio pochi spiccioli, ma tenuti molto da conto. Riserbavo le spese solo ed esclusivamente per le cose utili, tipo i fumetti de “L’Uomo Ragno” o i racconti del terrore di Stan Lee. Con parte degli altri risparmi acquistavo dischi. Mia madre era un’appassionata di musica: se non fosse stato per lei, e per qualche conoscente americano vicino di casa, non sarei mai riuscito ad ascoltare della splendida musica jazz.
“Dove l’hai presa”, chiesi, “quella gomma?”
“Alla Standa!”
Così corsi su per le scale fino al primo piano, volevo vedere tutta la cancelleria del negozio, tra le statuine del presepe, tra i vestiti e gli scherzi di carnevale. Accidenti, erano arrivati dei fogli da disegno colorati e un nuovo tipo di portamina! Niente male, i pastelli… Eccole! Eccole tra i temperini e i compassi! In mezzo ad altre gomme bianche, bianco azzurre, tra matite, penne multicolori. Commesse in giro non se ne vedevano... afferrai una gomma pane e la misi subito in tasca. Tornai a guardarmi intorno, nascondendo meglio la mano che stringeva il corpo del reato. L’improvviso impulso mi colse quasi impreparato, senza sapere nemmeno io i reali motivi del misfatto. Feci una cosa stupida? Era la prima volta che rubavo. Ma non mi pentii nemmeno alla cassa. Uscii veloce, defilato, ricordando quello che mi avevano raccontato sui bambini che rubavano. Ero atterrito dalla paura, nessuno mi aveva scoperto. Tirai un fiatone mentre i portoni si richiudevano e la gente defluiva dal grande magazzino. La mia mano aveva stritolato la gomma, riducendola a un ammasso di pongo non ben definito dalla forma del mio palmo.
Quella gomma pane durò esattamente fino a primavera, diventando nera come il carbone.
Nel frattempo, io e Mario, un bel giorno, nel quarto d’ora di ricreazione delle dieci del mattino, avevamo litigato. Mancavano cinque minuti al suono della campanella quando, una mossa sbagliata della sua presa al bavero, causò uno strappo longitudinale al mio grembiule. Con il pianto estrinsecavo la paura che serbavo di mia madre, la sgridata serale che sarebbe succeduta per il danno subito. E quale evento! Dall’alto della sua boria Mario pensava di avermi annichilito dal dolore, con le botte. Già tremavo per il terrore susseguente: l’incontro in famiglia, la giustificazione, l’evidenza della colpa, la denuncia dell’incidente.
Piangevo preoccupato delle conseguenze.
Due mesi dopo, cambiato camice e fiocco, annullati gli effetti del distruttivo episodio, decisi di vendicarmi.
La gomma pane rubata, ormai inservibile, la portavo sempre dietro, nella tasca: anche quel giorno, all’ora del pranzo, in refettorio.
Mi ero preparato psicologicamente durante tutta l’ora di ginnastica, non visto dal professore, l’unico insegnante esterno dell’intero istituto. Ci faceva correre, saltare, andare su e giù per le funi e per le pertiche…
Prima di iniziare il pasto, agendo velocemente, sarei riuscito a cospargere di tante palline di gomma pane deteriorata la minestra di Mario.
I piatti fumanti erano già serviti sopra i tavoli, e le suore aspettavano tutti, ma proprio tutti, i bambini, per la preghiera di ringraziamento.
Le briciole plastiche mi riempivano la tasca sinistra da un quarto d’ora, per agire non aspettavo altro che Mario entrasse in bagno a lavarsi le mani. Spinto dall’impulso della sicurezza e dell’impunità, meditando l’azione da alcuni giorni: mercoledì menù fisso, minestra e bistecca con patatine. E dalle suore non esisteva rifiutarsi di mangiare.
Una mossa abile e veloce sopra il piatto di Mario, rapida mescolata con l’indice sporco e via: fuga verso la mia sedia, qualche metro distante.
“Ti sei lavato le mani?”
“Certo suor Alba! Sono stato velocissimo!”
“Bravo! Attendi in piedi, allora, mentre arrivano i tuoi compagni.”
I tavoli erano in legno tamburato, perfettamente quadrati, di colore azzurro, con le gambe in acciaio. Ci disponevamo uno per lato, sempre agli stessi posti. La stanza angusta e gli spazi limitati risultavano lugubri ai nostri occhi di bambini: guardavamo le sbarre alle finestre mentre i rumori dei passanti provenivano dall’esterno. All’ordine della madre superiora sedevamo in contemporanea e, dopo il segno della croce, recitavamo la preghiera di ringraziamento a Nostro Signore, per il cibo che ci aveva donato. Poi si mangiava.
“Buon appetito, Mario!”
Sei stato male una settimana ma ti è piaciuto moltissimo, quel giorno, l’intruglio della minestra. Ruminavi i pezzi solidi col formaggio grana e le fette biscottate: amavi dosi abbondanti, il sapore della novità.
Quanto era buona la pappa, chissà cosa avevano messo dentro, di così speciale…
Vi domanderete perché, oggi, scrivo su questo argomento. La risposta è molto semplice.
Qualche giorno fa ho letto l’ennesima antologia di autori contemporanei, scrittori che, per la maggior parte, raccontano della propria vita. Ho fatto caso alla noia di questi ricordi di infanzia, il rimpianto, la nostalgia e balle varie. La separazione dai luoghi familiari, la morte dei parenti, l’assenza del padre, della madre, dei fratelli; il ricongiungimento coi cugini, il ritrovamento dei nonni e degli zii. La paura della morte, si muore tutti e soprattutto dopo una vita di lavoro e sacrifici. Alcuni, dopo molte pene, non hanno avuto nulla. Piangimi addosso, andiamo in chiesa a pregare e manteniamo i contatti.
Dopo anni di lontananza ho rivisto i vecchi amici, come è bello! Tutti uguali, simili, intonati, ameni, scritti di solidarietà, comprensione, amicizia, fratellanza, ricordo, nostalgia. Amen.
Voglio finire spiegandovi che Mario è diventato grande, ha avuto due figli, lavora, e alcuni suoi parenti e amici sono deceduti.
L’altro giorno l’ho incontrato nel vecchio Corso, adesso solo una strada centrale, storica, sempre la stessa, in cui non ci sono più né il negozio di mio padre né le molte attività dei vecchi pordenonesi. Lui, Mario, resiste! Più unico che raro! Commercia ancora, nonostante l’abbigliamento sia in crisi...
“Ti ricordi Marco? Non ci annoiavamo mai…”
“Certo, che mi ricordo!”

1 commento:

  1. Una finestra aperta su di un mondo infantile che è appartenuto a tutti noi... difficilmente, però, riusciamo a ricordare e raccontare con la tua stessa nitidezza.
    Molto bello.
    Bravo.
    http://1axax1.wordpress.com/

    RispondiElimina