martedì 2 marzo 2010

UNA SCUOLA DI MAFIA - PASQUALE FASELI (58)

Periferia di una città all’interno di un vasto magazzino di carne. Centinaia di buoi macellati, erubescenti ma non troppo, appesi ai ganci; pareti del locale spoglie e imbiancate con vernice bianca idrorepellente. La temperatura dell’ambiente è vicina allo zero; don Gerlando Marchica, di sessant’anni, tarchiato e senza baffi, vestito con un cappotto di lana di cammello, è seduto su una specie di scranno. Davanti a lui, in piedi e in semicerchio, tre picciotti con ognuno un pacchetto di sigarette nel taschino della camicia; ma non stanno fumando.
“Bella vapparia avete fatto!” esordisce don Gerlando fingendo indignazione “che incarico vi era stato affidato, sentiamo?”
“Di incendiare il magazzino di Guarneri” risponde candidamente un picciotto.
“Benissimo; voi invece avete distrutto un palazzo di sette piani, buttando in mezzo alla strada trentacinque famiglie. Come la mettiamo?”
“Scusassi, don Gerlà, come facevamo a bruciare il magazzino al piano terra senza bruciare anche il palazzo che ci sta sopra? Le fiamme, quelle, salgono sempre in alto, mai che scendano in basso” dice un altro picciotto con energia, ma lentamente.
“Ora vengo e mi spiego” comincia don Gerlando alzandosi dallo scranno “dovete sapere che se uno vuole fare il geometra, frequenta la scuola per geometri, e se vuol fare il ragioniere, frequenta la scuola per ragionieri. Voi che aspirate a fare i mafiosi, quale scuola avete frequentato fino a posto oggi?”
I tre picciotti si guardano l’un l’altro attoniti, poi uno, preso il coraggio con entrambe le mani, dice: “Don Gerlà, non ci sono scuole per diventare mafiosi”.
“Infatti non ci sono, ma dovrebbero esserci almeno per imparare i rudimenti teorici, mentre per la pratica basterebbero tre mesi di stage presso una cosca acclarata dalle altre. Perché senza la teoria, la pratica è come il quadro di un pittore che dipinge bendato. Difatti anche il mese scorso avete combinato un’altra minchiata quando siete andati ad appiccare il fuoco col cerino al fienile di Muzzicapali”.
“Ma il fienile è bruciato tutto intero per come ci aveva ordinato vossia” dice un picciotto a caso.
“Se voi avreste frequentato la scuola, sapreste che il fieno brucia anche per autocombustione, e, quindi, siccome voi non avete lasciato sul posto, oltre al mozzicone di cerino scomparso tra le fiamme, nessun altro indizio sulla natura dolosa dell’incendio, quello scimunito di Muzzicapali ha creduto, e crede tutt’ora, che il suo fienile sia bruciato per autocombustione, cioè per causa naturale. Perciò il messaggio che si voleva comunicare al Muzzicapali non c’è stato, e il fienile è bruciato invano. Un vero peccato; se penso a quei cinquemila metri cubi di fieno andati in fumo mi viene il freddo alle ossa…Avete capito adesso?”
“Vossia in questo caso ha ragione; ma nell’incendio del magazzino di Guarneri sbagli non ne abbiamo fatto perché abbiamo lasciato mille segni; a cominciare dai cento litri di benzina che hanno prodotto fiamme alte trenta metri, e i pompieri hanno penato un giorno e una notte, o meglio una notte e un giorno, per spegnerlo; a finire con tutti gli altri segnali inconfondibili quali le taniche lasciate sul luogo del disastro, l’incendio che si sviluppa in più punti contemporaneamente; tutti eventi narrati dal telegiornale e che io le racconto pari pari come le ho sentite” disse uno dei picciotti dalla faccia sveglia.
“Su questo siamo d’accordo e mi compiaccio con voi; ma se aveste studiato come si calcola il carico d’incendio, non avreste combinato anche il disastro della distruzione del palazzo, e vi spiego subito cosa andava fatto e come. Il carico d’incendio è il rapporto tra il peso della quantità di materiale infiammabile, moltiplicato per il corrispondente potere calorifico, e la superficie del locale; nel nostro caso la superficie in pianta del magazzino di Guarneri. Ottenuto questo valore in megajoule su metro quadrato, si passa a calcolare la quantità di calore totale sprigionata dalla combustione e, se essa supera un certo valore, si procede ad appiccare il fuoco in vari punti senza usare liquidi infiammabili, ma lasciando sul posto decine di taniche vuote, dimostrative, solo dimostrative, dell’evento doloso. Chiaro quindi come andava fatto il lavoro?”
“Chiarissimo, don Giurlà, la prossima volta ci porteremo le taniche vuote, faremo finta di appiccare il fuoco e telefoneremo al proprietario dicendo che non c’è bisogno di chiamare i pompieri perché l’incendio è dimostrativo, solo dimostrativo” disse il solito picciotto dalla faccia sveglia.
“Minchia!” esclamò don Gerlando “sono anni che ripeto ai miei amici della cupola che senza scuole di mafia l’attività mafiosa rischia di degenerare nella barbarie. È un peccato però, un vero peccato”.
Fuori dal magazzino il sole declina all’occaso, ma nessuno se n’avvede per l’assenza di aperture alle pareti.

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