domenica 11 aprile 2010

LE STANZE DELLA VISTA - CARLO LOFORTI (23)

Si dice che i ciechi sviluppino incredibilmente gli altri sensi. E chi l’avrebbe detto? Io non ne conosco tanti. Credo piuttosto che siano gli altri a sforzarsi di immaginarci speciali.
Perdetti la vista a vent’anni; ma nulla è cambiato nel mio rapporto con le cose. Contemplavo tutto, spinta dalla curiosità di chi ama, e malgrado il buio, quella curiosità è viva più che mai.
Non vedente, è così che si dice; come se a dire cieco ci fosse qualcosa di male. Cieco, è questa la realtà, senza offese e senza giri di parole. In qualche modo è il suono stesso ad evocare il buio, ma vorrei poter esser la dimostrazione che ogni ombra ha la sua luce, nel bene e nel male. E la mia luce pare voglia impressionare l’obiettivo del mio sentire, divertendomi meravigliosamente.
Tutto il periodo che precedette la mia scelta, fu accompagnato da una costante presenza psicologica di supporto:
Allora signora Delefer, che mestiere sognava di fare da bambina? – aveva chiesto la psicologa, chinando in avanti il petto nel gesto di starmi più vicino, come se oltre che cieca fossi anche sorda.
La mamma – ho risposto, sentendone il corpo agitarsi nella poltrona di fronte.
Sono diventata la migliore nell’unica cosa che sentivo di poter fare. A volte nelle vite degli uomini si innescano meccanismi che hanno pace solo quando trovano realizzazione. Dicono che le mie foto siano belle. Io non posso saperlo e, probabilmente, nemmeno mi interessa. Mi piace sentirlo dire, ma non è per questo che lo faccio.
C’è tanta energia dietro le cose che non potrei vivere senza la certezza di adoprarmi al suo servizio.
Ha ascoltato la cassetta che le ho dato la scorsa volta? C’è dentro ogni dettaglio, tutto ciò che è necessario che lei sappia.
Sì, certo.
E che ne pensa?
Penso che preferirei non parlarne – ho detto, tagliando corto.
Ero più distratta da una sensazione di luminosità profonda che attratta dalla sua voce. Quasi non la ascoltavo. E poi, quell’odore di disinfettante tipico degli ospedali, inaspriva l’aria.
Non amo le interviste, la mondanità. Sì, sono una celebre fotografa ormai, ma la gente prova ancora uno strano disagio nell’entrare in relazione con me. Credo sia per via della mia diversità; come se non poter vedere comportasse chissà quante altre limitazioni. Per questo divento restia all’incontro, al confronto. C’è chi dice che la mia sia una tendenza antisociale bella e buona, e forse è così. Non amo la gente, su questo non ci sono dubbi; ma ne amo l’immagine. Adoro fotografarla; un gesto che rende tutto semplice, soggettivo.
- Tornando al suo lavoro, se potesse, con cosa scambierebbe una delle sue foto? - questa volta col tono più da amica che da terapeuta.
- Con il soggetto per una nuova foto.
Mi era parso di intuire un suo sorriso. Per un attimo ero riuscita a sentirla vicina, come se ne avessi conosciuto un po’ d’anima. Mi ero sentita psicoanalista anch’io e, tutta elettrizzata, mi ero risvegliata.
Avevo associato quelle parole ad un caro pensiero.
Ricordo ancora il primo scatto. Ero in salotto. Il calore del camino di fronte, addensava l’aria. L’ odore di legna bruciata si univa allo scoppiettio di scintille passeggere, e creava una meraviglia del sentire tutt’intorno un movimento armonico. Ero eccitata. Avevo chinato il capo per sentire quel calore più vicino. Gli occhi bruciavano, umidi – mai saprò se per il fumo o la commozione. Ho afferrato la macchina fotografica che mio padre teneva sempre a portata di mano. Ho continuato a lasciarmi coccolare da quell’energia tremolante, fin quando arrivò il momento che non riuscii più a sopportarla, tanto era intensa, e scattai. Non fu un gioco, avevo capito che si trattava di qualcosa di serio, che era la strada che avrebbe illuminato la mia ombra. Era una strada difficile, a tratti buia, ma era stato l’istinto a rendermela familiare, come se non avessi percorso che quella in tutto quel tempo.
Credo che ci sia una sorta di flash interiore per ogni mio scatto. Forse è quell’energia a chiamarmi. O forse è la mente, i ricordi di quando le stesse cose catturavano un senso che ora non c’è più, cose che chiedono di tornare a galla. Altre volte penso sia il “Super Io”, ad avvisarmi di tensioni talmente intense da cui, se potessi vederle, rifuggirei. Forse, se non fosse stato per quella vicenda della cecità, oggi i miei scatti non sarebbero tanto apprezzati. La mia storia è ritenuta talmente incredibile che non mi stupirei se scoprissi che in molti sopravvalutano il mio lavoro. Forse è una storia meravigliosa la mia, prima che valida arte.
Crede di essere pronta per l’intervento? Ha pensato al trauma che potrebbe subire dalla possibilità di tornare a vedere?
Non so se sono pronta.
Lo scopo della terapia era quello di prepararmi psicologicamente ad affrontare di nuovo la luce, ed in effetti non era un argomento da poco. E poi io, in un certo senso, vedevo. Avevo la fotografia; nient’altro contava.
I suoi familiari hanno molte aspettative al riguardo.
Sì, questo mi preoccupa. Non vorrei deluderli, ma nemmeno abusare di me stessa.
E’ così che si sente quando pensa all’intervento? Pensa che le toglierà qualcosa? – aveva incalzato.
Silenzio.
Sapevo che era così, ma non volevo dirlo: sarebbe apparsa un’eresia per chiunque. Ma avevo pochi giorni, e dovevo prendere la mia decisione.
O meglio, l’avevo già presa.
Ho capito che a volte non bastano gli occhi per vedere, e altre volte non sono necessari. Ho sempre usato gli altri sensi, le emozioni, gli odori. Suoni e oggetti prendevano forma diretti dalla mia mente. La memoria ha una grande forza, e mio pregio era quello di averla sfruttata, proiettando ciò che vent’ anni fa aveva avuto accesso ad essa.
Mi ero ripresa ciò che la vita mi aveva tolto. Ma non pensavo che un giorno la vista mi avrebbe privato dell’unica cosa che mi fosse mai stata donata.
La fotografia.
Sono anni che non riesco a scattare. E’ come se fossi bloccata, come se adesso che ci vedo, tutto appaia troppo facile, banale. So che è un pensiero stupido. So che è tutto nella mia mente. Chissà per quanto ancora squillerà il mio telefono, prima che si stanchino di me; prima che capiscano che non sono più la stessa Marie Delefer.
Che non sono più una fotografa.
Poi, qualche ora fa, tutto è cambiato. E’ stato come se percepissi di nuovo la mia anima. Calda. Viva. E’ sullo stomaco che la sentivo prima; ed è lì che l’ho ritrovata. E’ bastato un solo gesto: chiudere gli occhi. Era così semplice, eppure non ci avevo mai pensato. Ho preso la macchina fotografica e l’ho appoggiata proprio sul ventre. Pronta a scattare. L’aria entrava nelle narici, gli odori s’incuneavano trasformandosi in gusto. La donna in bicicletta delle 17.00; sarebbe stato quello il mio nuovo soggetto. Da mesi le scattavo una foto mentre passava davanti casa per andare al lavoro. Ma niente. C’era solo una donna e la sua bici in quegli scatti. Mediocre.
Oggi però dal mio balcone, con gli occhi chiusi, l’ho sentita arrivare da lontano; sin da dietro la curva. Lo sferragliare della catena. I muscoli delle gambe in trazione. Il sudore. L’aria che si spostava. La sua ombra. Non era più una semplice donna in bicicletta ma era molto, molto di più. Ogni senso incontrava l’altro.
Ero di nuovo viva.
Ero di nuovo Marie Delefer.
Ci sono momenti ai quali mai potrei rinunciare. Quella stessa luce che illuminava il mio buio continua a fare luce sui miei passi, a riscaldare la mia anima e a segnare il mio cammino. E lascia il giusto spazio al buio, all’ombra, perché è insieme che devono andare e che cercano ognuno di noi. Non è cambiato nulla. Luce e ombra; l’equilibrio giusto.
L’energia giusta.
Mi piace immaginare quest’energia come una chiave. Quando arriva la sento, come se tintinnasse davanti a me cadendo al suolo. Mi pare di afferrarla cercandola a tentoni, come se fosse la soluzione ad ogni cosa. Immagino questa scena ogni volta, prima di qualsiasi scatto. Poi tra le mie mani la chiave diventa calda, trasformandosi in macchina fotografica.
Quella chiave apre di volta in volta delle porte. E’ l’arte a bussare rispettosa, e mentre passa dall’altra parte, guarda quasi con stizza la realtà sconfitta, prima di procedere verso milioni di altre porte da aprire.

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